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  • Immagine del redattoreLa cronista

Breve messaggio di una montanara per chi pensa al mare

Ho fatto un giro sul ballatoio. I raggi iniziano a essere di quelli caldi, tipici delle giornate di primavera che vogliono ricordarci (o farci intuire, forse) l’estate. E’ il momento in cui, a bassa quota, inizia a sciogliersi un po’ di neve. E’ il momento in cui anche sulle cime più innevate si inizia a respirare un profumo diverso da quello dato dalla rigidità invernale.


La montagna mi manca esattamente nello stesso modo in cui mi mancano le persone, sapete. La mano sulla roccia come un abbraccio, respirare e riconoscere certi profumi ad alta quota come quando sei per strada e riconosci – a distanza – il profumo di qualche “tua” persona. Ad esempio. Se la nostalgia diventa malinconia in giornate come queste, ora più che mai è utile pensare alla montagna. Perché? La montagna è speranza e bellezza.


Noi "montanari" lo sappiamo bene: la speranza è l’ultima a morire. Non c’è salita che, per quanto estenuante ed apparentemente interminabile, non conduca ad una condizione migliore. Il che significa però, nella maggior parte dei casi:


(i) sudare (tanto);

(ii) maledire (mentalmente) gli amici più veloci che sono già in cima quando tu hai giusto fatto due passi giù dalla macchina;

(iii) maledire contemporaneamente se stessi (“potevo restare a casa con il mio gatto”);

(iv) carenza d’ossigeno nelle ascese più impegnative e – soltanto dopo tutto questo - immensa pace dell’anima al traguardo. La vetta.


Vi dirò di più. Anche quando si “ravana” senza raggiungere la vetta – ravanare, pratica consistente nel perdere e riprendere più volte il sentiero scegliendo la strada sbagliata al bivio/seguendo scorciatoie improponibili (solitamente proposte dai più esperti, “oh, secondo me se passiamo di qui facciamo prima”)/affidandosi a mappe cartacee del 1980 (“ma sì, tanto i sentieri quelli sono, cosa vuoi che sia cambiato!) – si finisce approdando ad una condizione migliore.


Insomma, amici "marinai", la montagna ci ricorda che la resistenza fisica e la resistenza psicologica - anche quando imposte da condizioni esterne, indipendenti dalla nostra volontà o dai nostri desideri – hanno un significato positivo, poiché tale non può che essere l’esito di questi sforzi. E qui ci si aggancia alla bellezza della montagna.


Bellezza, che non è mica solo la bellezza visibile dei boschi, dei laghi, dei ghiacciai sotto il sole, dello spuntare da sopra le nuvole, delle stelle a portata di mano. La fatica e la speranza delle quali parlavo sopra svelano il nostro carattere, squarciano il velo con il quale copriamo la parte più intima di noi stessi. Dopo un po’ che cammini in montagna, riconosci l’irascibile, l’impaziente, il vanitoso, il coriaceo, l’ottimista. Non solo: la fatica e la speranza della montagna influenzano il nostro carattere come la forza dell’acqua modella gli scogli. Ci ricordano che, in certe condizioni “ostili”, diventiamo tutti uguali e ci fanno al contempo propendere verso la parte migliore di noi (il meccanismo psicologico non mi è ancora chiaro – del resto, non è mio compito indagarlo – ma i risultati di questo meccanismo sì).


Non ho altro da dire ai marinai. Ai montanari dico solo: spero di rivedervi presto, possibilmente davanti ad una birretta in rifugio.


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