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Parthenope

  • Immagine del redattore: La cronista
    La cronista
  • 29 ott 2024
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 29 ott 2024

E’ struggente il modo in cui, ancora una volta, Paolo Sorrentino è riuscito ad intrecciare l’estrema umanità di un personaggio con il più “indicibile” significato metaforico delle sue azioni.


Parthenope é qualcosa di più della sirena ammaliatrice di cui porta il nome, qualcosa di più della città seducente e tormentata nella quale è nata e cresciuta. E’ la bellezza.


“Non so niente, ma mi piace tutto”. Parthenope, come la bellezza, è massima pienezza e massima leggerezza allo stesso tempo.


Bellezza che illumina i rari istanti di felicità di Raimondo, il fragile fratello, con la fugacità di un fuoco d’artificio. Bellezza di fronte alla quale il malconcio scrittore John Cheever, a fine carriera, trova la forza di recitare i suoi ultimi versi. Bellezza che accarezza dolcemente la diva Greta Cool, quando – a seguito di un’improvvisa esplosione di odio verso la sua città natale, Napoli – da femme fatale, si trasformain un mostro grottesco (magnifica Luisa Ranieri). Bellezza che assume la forma del desiderio (quasi) inaccessibile per lo spregiudicato cardinale Tesorone. 


Eppure – e questo sembrerebbe essere il punto di congiunzione tra la valenza metaforica del personaggio e la concreta esistenza della protagonista – nessuno sembra capace di cogliere realmente Parthenope.


Sandrino se ne allontana inseguendo l’aumento di stipendio al nord, Raimondo cede all’autodistruzione; il cardinale assapora la tentazione di una bellezza mai contemplata, ma la rigetta invocando l’importanza della sua corsa politica alla carica di Papa. 


In parte, la responsabilità è di Parthenope stessa, la quale non si “lascia andare” fino in fondo. La giovane donna sembra infatti rimanere ingabbiata nel ruolo teorico e dominante di soggetto desiderato, intellettuale curiosa e dalla battuta pronta, ma sostanzialmente incapace di entrare in connessione profonda con le persone che popolano la sua vita (Celeste Dalla Porta perfetta nella resa scenica del profilo ambiguo del personaggio). C’è, però, un’eccezione. 


L’apparentemente cinico Professor Marotta (Silvio Orlando maestro nell’esaltare la vena al contempo ironica e drammatica del personaggio) riesce ad avvicinarsi, con grazia, alle vulnerabilità di Parthenope, offrendole l’opportunità di schivare un destino già scritto. E qui, Parthenope torna metafora. Il rapporto tra la studentessa ed il suo professore brilla di una bellezza pura, libera. “Io non la giudicherò mai e lei non mi giudicherà mai”. 


Parthenope dovrà tuttavia nuotare ben lontano dai suoi scogli per imparare a vedere, per cogliere il significato più autentico – quello sul quale si è costantemente interrogata, a partire dai suoi diciotto anni – della propria esistenza. “Saper vedere è la cosa più difficile perché è l’ultima cosa che si impara quando inizia a mancare tutto il resto” l’aveva messa in guardia Marotta. Sembra la fine, ma non lo è. 

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