
Il Paese che contiene tutto
- La cronista
- 3 set
- Tempo di lettura: 10 min
Immaginate un Paese che contiene tutto. Scommetto che anche il vostro occhio rimarrebbe affascinato – e, forse, un po’ disorientato – dalla coesistenza, nell’intero territorio kyrgyzo, di tratti indoeuropei e asiatici. Non è solo una questione di approdo etnico, stratificato nei millenni, ma anche di geografie.
L’anima del popolo e la sua musica
Alcuni discendono dai conquistatori mongoli e cinesi, giunti a ridosso dell’Anno mille, altri dai russi - inviati dagli zar e dal Governo sovietico, successivamente- per colonizzare le terre del centro Asia.
Altri ancora dai cosiddetti “tedeschi del volga”, deportati in Kyrghyzstan da Stalin, il quale temeva la loro connivenza con il Governo di Hitler.
E poi, i migranti uiguri e dungan.
Chi è tornato a casa, appena gli è stato possibile, chi è rimasto. Tutti hanno lasciato qualcosa di sé.
Così si spiega la forma a pagoda della moschea di Karakol, costruita a inizi Novecento dalla comunità dungan, i musulmani di origine cinese in fuga dalle repressioni della dinastia Qing.
Azzurra, ornata di draghi e frutta, sorretta da un colonnato giallo. Si dice che i dungan scelsero il giallo, colore rappresentante il potere imperiale e di regola utilizzabile solo dai membri della famiglia reale, proprio in sfregio all’imperatore. Non potevamo in patria? Possiamo qui.
L’esibizione del vincolo con il divino è stata, anche nel caso della comunità russa zarista, una modalità di radicamento. Le cupole dorate della chiesa ortodossa di Karakol, con le croci dorate che paiono sculture a se stanti, contrastano con il cielo grigio di Karakol e con la struttura dell’edificio in legno scuro.
L’interno è azzurro, drappi blu scuro a frange dorate proteggono le icone.
Minimale rispetto al classico barocco ortodosso. L’unica luce è quella dei gruppi di candele sparse qua e là.
Un’anziana vestita di scuro, il capo coperto da un velo bianco, svolge il suo rito quotidiano, noncurante di ciò che accade intorno. Tre volte il segno della croce, davanti alle pale raffiguranti i santi e le sante, accende le candele usando un’altra candela. E così via, lungo tutta la navata.
Silenzio, a parte lo scroscio continuato della pioggia.
Agosto 2025. Un mese imprecisato del 1895.
Cosa resta, invece, della dominazione sovietica?
1) l’alfabeto. Anche dopo il collasso del Governo sovietico e la conseguente affermazione del kirghizo come lingua ufficiale, al posto del russo, tutto si scrive in cirillico.
2) Architettura più o meno esplicita. Giganteschi pilastri di cemento, incoronati da falce e martello, disseminati nei centri dei villaggi oppure lungo le strade nazionali. Piccole falci e martello scolpite sull’elegante colonnato neoclassico del Teatro dell’Opera e del Balletto di Bishkek.
3) gli sforzi per colmare i vuoti strutturali causati dal collasso dell’Unione. L’URSS, per decenni, ha finanziato e potenziato il sistema di istruzione “sovietico-kirghizo” nonché costruito e mantenuto il sistema infrastrutturale del Paese. Venuta meno l’Unione Sovietica, sono venuti meno anche fondi e capitale umano, in gran parte ri-trasferito in Russia. 4) esportazioni variegate verso la Russia. Dai prodotti agricoli all’elettronica.
C’è però un’identità Kirghizia che risale a prima dell’Unione Sovietica, della colonizzazione zarista, prima che la torre di Burana si trasformasse da minareto in torre d’avvistamento delle carovane lungo la via della Seta; ancora prima che l’esercito di Genghis Khan o quello imperale cinese arrivassero a controllare il territorio.
Più di mille anni fa, immaginateli come tribù di pastori nomadi, capaci di unificarsi contro gli invasori. Tribù combattenti e cantastorie.
Il ragazzo, con la tradizionale veste bianca ad inserti arabescati verdi, imbraccia il komuz – una specie di liuto a tre corde – e inizia a cantare questo pezzo di Storia, tramandata oralmente. Chiude gli occhi. Sembra una litania, ipnotica e non modulata, di versi ripetuti. Il suo corpo oscilla avanti e indietro.
Nacque Manas, possente come un leone.
La sua voce ruggiva come un tuono.Nacque Manas, possente come un leone.
La sua voce ruggiva come un tuono.
(chi è Manas? Ve lo dico dopo)
Il canto dura circa dieci minuti, fino a quando la sua collega musicista gli scuote il braccio. Lui continua. Lei gli dice qualcosa ad alta voce. Lui rallenta il ritmo. Lei lo ri-strattona, con più forza.
Noi ci guardiamo, non capiamo se si debba intervenire o se sia tutto normale.
Dopo pochi secondi, il ragazzo riapre gli occhi e si silenzia. “E’ andato in trance, bisognava fermarlo” ci viene spiegato. “E’ il coinvolgimento emotivo di chi canta la nostra epica nazionale”.
Si può andare ancora più indietro nel tempo, quando la musica era puro suono e non necessitava di parole, né di melodie per assolvere il suo scopo: congiungere l’uomo all’invisibile. La ragazza dalle trecce nere, immobile sullo sgabello, imbocca il temir komuz. Una specie di marranzano siciliano. Chiude gli occhi, anche lei. Il suo respiro ed i movimenti delle labbra originano il suono vibrante e metallico.
“Era usato dagli sciamani per avvicinarci a…” e il dito della nostra guida, Uri, punta in alto verso il cielo.
***
L’auto-radio di Uri passa l’ultima incalzante hit kyrghiza di Amirchik, il neo-melodico pop russo, ucraino e turco, The Weeknd e pure Toto Cotugno. Osservo dal finestrino i paesaggi remoti che stiamo attraversando in macchina. Mi sembra che quella musica non c’entri niente. Invece, c’entra tutto.
L’identità si fa scultura
Tutto, dagli uomini agli animali, può diventare una statua.
Le statue di Manas, eroe nazionale che dà il nome all’aeroporto della capitale.
Si trovano ovunque, dalla capitale ai villaggi più sperduti.
Si narra che fosse un soldato, vissuto nell’Alto Medioevo, che unificò le tribù kirghise guidando la resistenza contro gli invasori stranieri. Sappiamo poco altro. Raffigurato su un cavallo possente, tanto quanto la sua corporatura, imbraccia una lunga spada e indossa l’elmo col cimiero. Lineamenti asiatici, baffi e barba. Ha un aspetto poco conciliante.
Le statue degli attori del Novecento che hanno dato lustro al cinema kyrghizo.
Le statue della Seconda Guerra Mondiale. Loro la chiamano “Grande Guerra Patriottica” sebbene di “patriottico”, nel loro caso, ci fosse ben poco. Il Kyrhizstan ha fornito cibo, prodotti industriali e uomini all’Armata Rossa. Si stima che, dei 200 mila soldati mobilitati, ne ritornò circa la metà. I monumenti sono colossali – sia nella capitale, sia nei villaggi tra le montagne - enormi soldati di cemento, circondati da carri armati e da donne protese, in attesa del ritorno di mariti e figli. C’è sempre una fiamma che arde, a volte scolpita, a volte per davvero.
Le statue di donne. E’ il caso di Kurmanjan Datka – “la regina del sud” – che negoziò abilmente la sottomissione all’impero zarista, evitando un ulteriore conflitto rovinoso per il popolo kirghizo.
Le statue di chi ha messo sotto una lente di ingrandimento il Governo sovietico. E’ il caso di Zhuyup Abdrahmanov, la cui statua si erge nel centro di Karakol. Dopo aver scalato i ranghi del Partito Comunista, è stato accusato di “nazionalismo” e giustiziato per le sue visioni critiche nei confronti dei processi di sovietizzazione dell’Asia centrale.
Statue del leopardo delle nevi, dell’aquila reale e del Marco Polo (non il nostro viaggiatore veneziano preferito, ma l’ariete di montagna dalle gigantesche corna a spirale).
Statue di misteriosi pensatori locali.
Sculture serafiche, che hanno l’invidiabile aura dei saggi cinesi.
“Ma chi è quello?”. Uri mi guarda perplesso. “Probabilmente, è un filosofo oppure un poeta che ha significato qualcosa per questo villaggio. É un vanto, per loro”.
Ma io vorrei saperne di più.
“Sì, ma Giulia, pure te, non è che conosci vita morte e miracoli di ogni singola statua che c’è a Milano!”
Effettivamente...
Le geografie e i loro intermezzi
Stereotipi geografici abbattuti: le Alpi non sono solo in Europa, gli Appennini non solo in Italia.
Inoltre, c’è una bellezza naturale singolare, tipica del posto.
Distopia alpina
Descriverei luoghi come le gole di Grigorievskoe, Semienovskoe e Barskoon come distopici.
La strada costeggia montagne rocciose, bagnate dalle cascate che sgorgano dall’alto e terminano nei torrenti fragorosi a valle. Alla base, pascoli e pendii verdissimi, distese di larici in ottima salute. Il fresco è pungente.
Sembrerebbe di essere in Nord Italia oppure in Svizzera, se non fosse per le yurte sparse qua e là e per qualche riferimento storico. Ad esempio, il monumento – alla base di un bosco – al cosmonauta Jurij Gagarin il quale, pare, si innamorò di questi luoghi dopo avervi trascorso un soggiorno di piacere.
Rosso come il mare
La valle di Jeti Ögüz (“sette tori”) e del Canyon Skazka (“delle meraviglie”).
I pionieri di queste aree avevano sostenuto che le rocce somigliassero ad animali, principi e castelli leggendari. Io non ci ho visto nulla di tutto ciò, ma il richiamo alle fiabe non è necessario per spiegare la meraviglia di questi luoghi.
La conformazione di arenaria rossa e ferrosa del Canyon, dalla sua cima, pareun mare increspato di roccia che sfocia in un enorme bacino d’acqua: il lago Issyk-Kul.
Issyk-Kul è un lago che si perde all’orizzonte, come il mare che si fonde con il cielo. Non si vedono le sponde opposte; al massimo, in alcuni tratti, si intravede in estrema lontananza – come un’allucinazione tratteggiata nella foschia – qualche maestosa cima innevata.
Rallentiamo, scendiamo sui ciottoli lungo la riva. Le piccole onde, sul fondale trasparente, profumano di salsedine.
E’ pieno di strade interrotte, in piena ricostruzione. Uri ci spiega che il piano del Governo è creare nuove strutture turistiche. Spero che l’autenticità venga preservata.
Dal cinese: “le montagne celesti”
Destinazione Tien Shan. Il Kyrghyzstan è uno di quei luoghi in cui il viaggio passa anche per l’osservazione dal finestrino.
Il paesaggio cambia velocemente. Le coltivazioni pianeggianti di granoturco si trasformano in altipiani, il paesaggio diventa dorato e le montagne di carta pesta, corrugate, trafitte da luci e ombre che sembrano opera di un pittore. Poco dietro, le rocce scure dei cinquemila metri, con i loro ghiacciai e nevai bianchissimi.
La natura è intervallata da moschee dai colori sgargianti – l’islam è la religione della maggioranza – e da cimiteri antichi, incastonati tra le pareti delle montagne.
Le cappelle sembrano gli archi di castelletti in pietra, sulle cui punte svettano stelle e lune. Fermiamo la macchina, mi inerpico. Le tombe risalgono all’Ottocento. Alcune parzialmente interrate, altre riportano tracce di affreschi. Scene di caccia con l’aquila e i cavalli.
I cimiteri, in realtà, raccontano la vita.
Nel silenzio, ho pensato che siamo ospiti invadenti, poetici, distruttivi e fugaci.
Il casino di Kochkor
Kochkor è l’ultimo centro abitato prima della zona più selvatica dello Tien Shan.
Attraversato da un rettilineo asfaltato che punta diretto alle montagne – sul quale sfrecciano auto degli anni Settanta, tir, pulmini turistici, motociclette – è una specie di Babele kyrghiza. Clacson, commercianti, mendicanti, tetti in lamiera e impianti elettrici con fili esterni, signore distinte. I bambini giocano in mezzo alla strada.
Sconosciuti ci battono il cinque, altri ci dicono cose incomprensibili.
Distopia appenninica
Uri ci lascia sul pendio di Kyzart e ci recupererà sull’altro versante della valle di Kilemche.
Beka, guida quindicenne che ha imparato l’inglese grazie a Netflix, verrà con noi a piedi. Facciamo fatica a stargli dietro, sfreccia sui pendii nonostante i 30 km da percorrere, i 900 metri di dislivello ad oltre 3000 metri di altitudine.
Poco male, noi ci godiamo il paesaggio.
La morfologia della valle di Kilemche è estremamente abruzzese; le dimensioni, naturalmente, devono essere moltiplicate per mille. Un altopiano di panettoni brulli, dalle linee morbide e dalle superfici estese, come se fossero stati creati apposta per ospitare le ombre delle nuvole bianche proiettate da un cielo azzurrissimo. Qualche roccetta.
Sui pendii sfrecciano i cavalli – “sono le ali del popolo kirghizo”, ci ha spiegato Uri – diretti in qualche luogo misterioso con un’urgenza misteriosa.
Dove staranno andando?
Domanda probabilmente riferibile anche a noi, se osservati dall’esterno.
I sentieri sono tracce di animali, qualcosa di poco visibile, se non assente.
La sensazione di vagabondare in quel nulla a-spaziale e a-temporale, la cui destinazione finale è realmente conosciuta solo da Beka, è tutto sommato piacevole.
Si intravede all’orizzonte, dalla sommità del Passo Zhalguz Karagai - tratto piuttosto epico per noi trekkers, considerati i 3400 mt e i kilometri accumulati, ma piuttosto funestato dalla mole di turisti che lo risalgono a cavallo – il Lago Song-Köl.
Il Lago Song-Köl, rispetto al Issyk-Kul, pare una lastra di vetro non trasparente. Immobile, la superficie riflette esattamente le montagne sulle sponde e il colore del cielo, chiaro o scuro che sia.
Al tramonto, un gruppo di ragazzi inizia il gioco tradizionale – Kok Boru – davanti al nostro campo di yurte.
Chi indossando il cappello del folklore, chi con felpe all’americana, tutti iniziano a inseguirsi a cavallo. Il terriccio marrone sollevato dallo scalpitio dei cavalli si intona con la luce del sole che sta calando nel lago. Alcuni cavalli si impennano, i ragazzi si schivano abbassandosi verso terra, sporgendosi in laterale, rimanendo miracolosamente ancorati al dorso dei cavalli.
Più che un gioco, sembra una rappresentazione teatrale.
E’ sempre traumatico uscire dalla yurta e camminare fino ai bagni esterni.
Il cielo, però, è un tappeto di seta nera, tempestata di diamanti. Ci fermiamo un istante, sfidando il gelo polare di quella notte, e alziamo lo sguardo.
Un cono rossastro, affollato di stelle, si getta sul profilo a punta di una montagna che sovrasta il lago. Mi sembra la Via Lattea, ma potrebbe essere un’allucinazione.
So solo che questo frammento onirico si è incastrato nella memoria più di un’immagine fissata per ore, al caldo, a occhio nudo o tramite lo schermo di un iPhone.
The End - Il lago che appare e scompare
A proposito di allucinazioni. Attraversare Naryn è qualcosa di surreale.
La cittadina è dominata dall’ocra. Ocra delle strade in costruzione, della polvere da lavori in corso che aleggia nell’aria, delle pareti delle montagne tra le quali costruita.
Sì, scrivo “tra” e non “vicino”. Piccole montagne svettano tra le vie di Naryn, sembrano dune di sabbia solidificate. La sensazione è che chi abita alcune vie potrebbe uscire di casa e arrivare in cima in non più di dieci minuti.
Un paesaggio dai tratti desertici, che contrasta con quanto ci racconta Uri sugli inverni locali: metri di neve, freddo siberiano.
Seguiamo la strada del sud, attraversando un lungo altopiano di colline verdi costellate da pali di trasmissione dell’energia elettrica, fino ad un check point.
Siamo ad una sorta di confine con la Cina. Due militari perlustrano la macchina e controllano i nostri documenti di identità. Esibiamo il permesso di accesso. Sorridono a Uri – probabilmente, lo vedono qui ogni week end, con turisti europei ogni volta diversi – un po’ meno a noi.
Il bello sta oltre il confine.
Quando risaliamo il pianoro attraversato da un torrente a serpentina, i cinquemila aguzzi e rocciosi, ghiacciati e innevati sembrano vicinissimi.
Le cime, lame taglienti, spuntano dal cappello di nuvole grige irradiate dal sole, residuo del maltempo del giorno precedente. Affascinanti personaggi di un’epica antica, giganti spietati che possono schiacciare l’uomo.
Ai lati del sentieri, marmotte e yak. Un taigan rosso inizia a seguirci, come a volerci scortare fino ai 3500 metri del lago Kel Suu. I taigan sono i cani da caccia kyrghizi, levrieri spettinati e dalla coda arricciata, seduttivi anche per una cat addicted come me.
Tornando all’epica, epica è la visuale che si apre una volta scollinata l’ultima parte di sentiero.
Soprannaturale o naturale alla massima potenza, nonostante la presenza turistica stia aumentando anche qui. La distesa turchese del lago Kel Suu.
Kel Suu significa qualcosa come “acqua che arriva”. Pare infatti che il lago, con una periodicità imprevedibile, si svuoti per poi riempirsi di nuovo. Siamo stati fortunati.
E’ trasparente e luccicante, dalle sponde sinuose. Dai fondali emergono fiordi rocciosi, imponenti e grigi, che ospitano grotte e proiettano le loro ombre scure sull’acqua.
Non capisco se il lieve stordimento è un effetto dell’altitudine o delle ombre. Incluse quelle che le aquile, aleggiando sopra le cime dei fiordi, proiettano sulle loro rocce.
Se ci penso, c’è spesso qualcosa di drammatico nella bellezza kyrghiza.
A cena, mi incanto a guardare fuori dalla finestra della guest house.
La figlia dei proprietari gioca con due cani, ne cavalca uno, si fa rincorrere dell’altro, li spinge a terra. Energie inesauribili.
Alle loro spalle, sullo sfondo, i nevai ed i ghiacciai si stanno colorando di rosa. Non assomigliano più a giganti minacciosi, le nuvole sono scomparse. L’atmosfera è azzurra e limpida. Prima di rientrare in camera, guardo ancora fuori.
La bambina e i cani sono scomparsi. I ghiacciai ci sono ancora, ma sono nascosti nel buoio.
Così, è calata la notte. Così, mi sono dimenticata del mondo.
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